Damiano Vietri, stimato professore di filosofia del trevigiano, viene trovato senza vita nel giorno del suo sessantesimo compleanno. Sarà un ex allievo, ormai quarantenne e svuotacantine di mestiere, ad assolvere l’ingrata incombenza di sgomberare l’abitazione del povero suicida.
Tra vecchi oggetti, centinaia di libri e un andirivieni commosso e compassato di amici e parenti, Toni Del Bon ricompone, pezzo dopo pezzo, la vita di colui che gli insegnò ad amare la cultura. Un’esistenza votata al più sublime dei sentimenti, che lo ha travolto, elevato fino alle stelle e poi gettato nell’abisso più buio, lì dove solo i pesci e le alghe sopravvivono senza aria, quella stessa aria che Katia gli ha tolto un giorno, senza preavviso.
Paolo Venti è nato a Spilimbergo (PN) nel 1963 e vive a Travesio. Insegna lettere classiche a Pordenone da oltre trent’anni. Ha pubblicato un’antologia dei poeti friulani della Destra Tagliamento Quatri fues di argjelut (1998), testi scolastici relativi al mondo classico (Il nostro greco quotidiano per Le Monnier, A zonzo per le vie dell’antica Atene e A zonzo per le vie dell’antica Roma per Agenzia Libraria), un volume di racconti, Racconti di mosaico (Arcometa, 2007), due volumi di viaggio per Ediciclo, Pedalando con gli dei, in bicicletta dal Friuli ad Atene, e La strada per il Don, sulle tracce della ritirata di Russia. Ha tradotto in friulano le Opere e i giorni di Esiodo. Nel 2017 ha pubblicato La strada che non trovo, raccolta di testi poetici con introduzione di Roberto Pagan, e Sinestesie, commenti poetici a dipinti di Sergio Romano. Suoi racconti sono comparsi di recente in volumi collettivi della casa editrice Morganti con cui nel 2022 ha pubblicato il romanzo Le figlie dell’orsa.
Mario Giannatiempo –
Mario Giannatiempo
Quando finisce l’amore
(L’articolo è comparso sulla rivista online Blognotes del mese di settembre 2024 https://www.blognotes.info/quando-finisce-lamore/)
In un periodo in cui i femminicidi testimoniano una crisi drammatica del maschio, incapace di accettare la fine di una relazione, il libro di Paolo Venti, Mai ti farei del male, è l’occasione di una pacata riflessione sull’amore e i suoi modi di essere. Il titolo del libro, edito ad agosto 2024 da Europa Edizioni, nasce dalla frase che Damiano Vietri, protagonista del libro, pronuncia tra le lacrime per rassicurare la donna che lo ha lasciato, e chiunque possa pensare ad una sua reazione violenta. Ma il distacco fa male, il lettore ne sente tutto il peso attraverso le confessioni di un uomo che non nasconde nulla, si spoglia di ogni pudore, mette a nudo speranze, illusioni, delusioni e ossessioni, fino a perdere il senno e l’anima.
La storia è breve, quasi scontata: un suicidio d’amore di un uomo maturo che non riesce ad accettare la fine di una relazione con una donna giovane e bella, anche se sposata e con figli. La relazione finisce quando lei pone prima un freno a questo legame, poi un alt che cancella ogni illusione. Dopo tanti vani tentativi di ripresa dei contatti, dopo tanti momenti di dolore e di rabbia, Damiano, il protagonista, non riesce a superare il suo crollo e si suicida.
Fine scontata anche questa potremmo dire, perché chi non accetta la fine di una storia, in diversi casi o uccide la partner o si uccide, facendo talora l’una e l’altra cosa. Eppure non è scontato il modo in cui la storia si sviluppa, anzi una originale narrazione si intreccia con una confessione di tutti i personaggi, chiamati a dare un contributo importante come testimoni e curiosi spettatori di un dramma annunciato sin dall’inizio. Già dalle prime pagine infatti, si viene a sapere della morte del professor Damiano Vietri, e come in un libro giallo leggiamo attraverso una serie crescente di flashback cosa è avvenuto e perché. Il ritratto di Damiano, la storia d’amore con Katia, emerge attraverso lettere che l’autore dissemina qua e la tra le pagine, come un filo di Arianna che deve guidare a capire, a trovare l’uscita da un tunnel d’amore malato che non mostra nessuna luce in lontananza. Diverse tecniche si affiancano e di susseguono per dare modo al lettore di seguire con attenzione e coinvolgimento. Quella filmica ci porta negl’interni, inquadra oggetti, foto, particolari che altrimenti sfuggirebbero, quella teatrale fa entrare scena uno dopo l’altro i diversi personaggi, come in dramma pirandelliano. La lingua volutamente poetica si articola su metafore che danno dignità a pensieri e descrizioni, così sembra non solo di essere presenti, ma scoprire insieme al personaggio di turno quella filosofia spicciola che rende profonda e importante anche la banalità.
Dialoghi e monologhi si alternano per offrire i diversi punti di vista. Ma tutte le figure sono in sostanza un pezzo di Damiano, una tessera del suo puzzle, aiutano a costruire la storia, e anche Damiano stesso. Quando poi apparirà evidente che Damiano e l’autore sono la stessa persona, che la storia è autobiografica, e quando Venti stesso interverrà come personaggio (un’entrata teatrale di sicuro effetto) per rivelare la finzione narrativa del suicidio di Damiano, allora i diversi piani narrativi troveranno la sintesi perfetta. Ma intanto siamo stati trascinati dentro una storia che vive continuamente una dimensione alterata, un deragliamento dei sensi. Esiste una tale passione? Sicuramente sì. Ne hanno parlato in letteratura uomini e donne, in un passato lontano come in uno più vicino a noi. Catullo cantava Odi et amo, confessando al lettore una confusione di sentimenti che non sapeva spiegare e che pure sentiva insieme. Nell’Eneide il poeta Virgilio descrivendo la passione della regina Didone per l’eroe troiano dice: caeco capitur igne, ovvero è presa da un fuoco cieco, che non capisce e non sa spiegare. Ci si consuma d’amore, ci si getta nel mare della passione senza limiti, senza paracadute, senza pensare al domani, senza futuro e senza logica. Forse per questo amore bisogna essere già capaci in partenza di sbandate che fanno male. L’autore ammette che forse Damiano è già un soggetto borderline perché solo chi è tale sogna senza limiti, desidera in modo spudorato, si concede fino a perdersi, e scoprendo un vuoto insopportabile quando l’altro va via, perde ogni ritegno e dignità per vivere solo di dolore.
Damiano è innamorato dell’amore, come di una magia in cui tutto diventa possibile, una sorta di sogno ad occhi aperti che però è vita reale. Un po’ come avviene nell’adolescenza dove tutto è sopra le righe, la gioia e il dolore, in un’altalena che gli adulti non sanno capire. Poi si dovrebbe diventare adulti, arrivare ad una misura più equilibrata, ma non è così per tutti. Qualcuno rimane adolescente nel cuore, con questa voglia di emozioni forti che sfibrano ma ti aiutano a sentirti vivo. Ecco perché è difficile parlare dell’amore perché ognuno ne ha una visione soggettiva. In massima parte tanti ne riconoscono un potere destabilizzante solo nella prima fase: l’innamoramento. Poi, per il resto sono pronti a considerarlo un’ affettività controllata dal logos, dalla razionalità, una risorsa indispensabile nelle relazioni sociali.
Anche Damiano, di fronte ad un amore finito, troncato da lei, senza appello e senza un confronto, si appella a quella parte di razionalità per tirare avanti. Ma dubita di poter comandare alle emozioni che non hanno il linguaggio del logos, di poter addomesticare il cuore ed il corpo che capiscono sola la lingua delle pulsazioni, delle corse forsennate del sangue, degli odori, dei sapori, del tatto. Anzi coesistono nel povero professore innamorato due distinte persone, una che sa tutto, cosa è bene e cosa è male, che riconosce la propria ossessione, ne vede i pericoli autodistruttivi; l’altra che non sa e non vuole più pensare, grida e si dispera come un drogato privato del suo veleno, che è il primo pensiero appena sveglio e l’ultimo prima di un sonno che non arriva mai. Stranamente anche Katia, l’amante, si sdoppia in due figure diverse: una donna che condivide in tutto il delirio dei sensi, ubriaca d’amore, che dà e riceve senza misura, felice di essere il centro assoluto delle attenzioni di Damiano; poi una calcolatrice, fredda, scostante, infastidita e preoccupata per una passione che non accetta di finire. Ma il libro porta a sviluppo estremo il gioco del doppio ruolo: lo stesso autore è costretto a sdoppiarsi: nella veste onnisciente di chi sa tutto e niente: è malato e medico nello stesso tempo, soggetto borderline e insieme rigoroso psicologo, è Damiano che vive un dramma e Paolo Venti che lo racconta. Persino il dott. Lucio Di Gennaro ( vero o finto che sia) entrato all’improvviso nella postfazione di fine libro indossa i panni di psicologo e sociologo insieme. Insomma un libro complesso che non offre consigli, né soluzioni, che pone piuttosto domande. Di fronte ad un amore così invasivo c’è chi si spaventa e fugge e chi sceglie di vivere emozioni forti con cui sentirsi vivi. Nell’immaginario collettivo la grande passione, quella con la p maiuscola, che toglie il respiro e libera ogni trasgressione la si sogna senza volerla vivere veramente, perché non porta nulla di buono, è distruttiva, fa male a chi la vive ed alle persone vicine. Si preferisce sognarla attraverso la vita degli altri, nei romanzi d’amore, nei film, nelle canzoni. Perché se tutto ha un fine anche quest’amore con la A maiuscola dovrà prima o poi finire. Ma come? Esiste un modo giusto, che non faccia troppo male, che tenga conto di ciò che è stato dato e ricevuto, che non lasci lacerazioni, rancori, ferite insanabili? Che chieda e riceva perdono, che abbia ragioni convincenti per l’uno e per l’altra? Insomma che possa chiudere alla pari una relazione che forse tale non è mai stata? Perché difficilmente si ama alla pari, in tanti casi ciò che si dà e si riceve compensa vuoti, deficit affettivi, problemi di autostima e tanto altro. Come chiudere allora storie giocate su tanti campi, spesso anche in modo inconsapevole? Se l’amore può essere egoista è facile che lo diventi anche la fine. Ma chi ha lasciato entrare nel suo cuore e in tutto sé stesso un sentimento totalizzante, che ha dato fino all’esaurimento non sa accettarne la fine perché con la fine dell’amore si spezza una magia, quello stato di esaltazione che è adrenalina pura, e si ritorna ad una normalità che non è vita per “chi è innamorato dell’amore”.
Le moderne posizioni della psicologia consigliano un taglio netto per chiudere una storia, non ammettono cedimenti né ripensamenti, non contemplano chiarimenti né ultimi incontri. Non a caso oggi vanno sempre più di moda scelte come “ghosting” o “breaking up by text”. Con la prima si chiude senza spiegazioni, e ci si nega fino a diventare introvabili, la seconda si risolve in un ultimo messaggio lapidario. Damiano si scontra con l’una e con l’altra, troppo per un cuore ormai stanco, che si sente come una cosa vecchia buttata via. Mai ti farei del male è un libro dove scoprire da vicino come siamo, con le nostre fragilità e le nostre debolezze. Nel confronto tra Damiano e Katia, in questo specifico caso, forse le nostre simpatie, non il torto o la ragione, si spostano verso il povero professore, ma in tante altre vicende le parti potrebbe essere invertite. L’autore, svelando che il suicidio di Damiano è solo una finzione letteraria, ricorda che esistono altre strade e che l’accettazione è dolorosa ma non impossibile, anche se gli uomini hanno imparato a sopportare il dolore meno della donna.
Giorgio Zanin –
MAI TI FAREI DEL MALE (Paolo Venti – Europa Edizioni 2024)
OSTINATO è il titolo di un album di Paolo Fresu ai suoi inizi (1985). Sin dal primo ascolto, la cifra della sua tromba mi parve capace di accompagnare i sentimenti tra passione e curiosità. Vi colsi un’insistenza magnetica, un forcing sonoro capace di tenere insieme, dentro il fiato di uno strumento musicale, il corpo e l’anima di chi soffre e spera. E certe sospensioni, certe esitazioni, mi son tornate in mente anche durante la lettura di questo romanzo di amori, scritto dall’amico fraterno Paolo Venti.
Conosco l’ostinata indole leonardesca e compulsiva di Paolo da quasi trent’anni. Voglio bene a lui e a questa sua indole inafferrabile, che spesso non capisco e che pure apprezzo non solo per amicizia. Mi piace da sempre come scrive; nelle sue pagine afferro il moto inquieto del suo scherzar sul serio. In questo nuovo capitolo della sua multiforme scrittura, ho trovato tracce antiche di ordine e disordine; ho trovato spunti di sintesi culturale accartocciati dal racconto tra dilemmi e naufragi d’amore; ho scorto anche tracce inedite dedicate alla sofferenza, soprattutto. Non solo romanzo, dunque: anche saggio antropologico, questo suo nuovo “Mai ti farei del male” che racconta di un professore suicida per amore. La trama ci porta al capezzale di un morto, ci accompagna nel suo brodo di passione carnale e spirituale, al cui entusiasmo e al repentino passaggio verso un’incomprensibile sofferenza siamo richiamati come per aver pena di lui. Questo è un libro che stimola la compassione. Perciò.
Non ho in mente una recensione. Ridico a me stesso, forse per capirci meglio qualcosa, alcuni spunti che hanno attratto la mia attenzione. E’ stata una lettura per nulla scontata che ho fatto con la luce del giorno, in cui anche la lingua di tante pagine m’è parsa volare lontano da quella familiarità orale che avevo riconosciuto tra le pagine di altre opere precedenti, quasi a indicare una novità, un nuovo canto, lungo la strada non trovata.
1. LO SVUOTACANTINE – È il mestiere generoso è inventivo a cui Paolo ha regalato il ruolo di protagonista. Di certo questa sua scelta, prima che metafora, è un fattore legato alla sua esperienza di coltivatore del residuo. C’è dentro una poesia degli oggetti “ventiana”, una sapienza della proprietà interiore delle cose che rimonta al “nulla si butta” appreso probabilmente da qualche nonna. Con Toni Del Ben, la voce narrativa principale del romanzo, s’è voluto raccontare l’avventura stimolante e dolorosa dell’archeologo, dell’allievo che ciascuno si augura di avere per occuparsi di quel che resterà di noi. Con il suo “svuotacantine” Venti ha provato con successo a tracciare un profilo di chi vuol capire e che perciò prova a liberare la storia da tanti impicci che si sono incrostati e che sempre si incrostano sugli umori e sulle vicende umane. È la metafora perfetta, non ingombrante, di chi esplora l’ignoto per cercare di accettarne il senso. Alla fine il suo ruolo è solo un veicolo destinato a lasciare spazio a tutto il resto. Svuotare, appunto, ma senza dimenticare.
2. I LIBRI BAGNASCIUGA – Nel ghirigoro del racconto, i libri puntellano e cesellano quasi ogni trama. Sono i libri accumulati in una biblioteca, sono le edizioni citate con malinconia, sono i titoli scelti come ricordo, sono i messaggi in bottiglia lasciati agli amici, sono le citazioni dentro i dialoghi e oltre i discorsi interiori dei protagonisti… Titoli e autori si rimbalzano con i narratori interni le responsabilità di sintesi precarie: ogni volta che c’è da segnare qualche spartiacque, ogni volta che c’è da far la punta alle matite per scrivere in modo netto di profumi e sentimenti, ogni volta che occorre inventare un anestetico per sedare i dolori del cuore innamorato, tradito e dolente. A volte son persino picchetti per fissare le tende provvisorie di chi racconta il caos dei sentimenti traditi. Ogni citazione diventa quasi un bagnasciuga che illude di toccar terra a chi prova a nuotare nello sconfinato orizzonte dell’amore in cui il professor Vietri s’è perso, almeno per un po’.
3. LE AMICIZIE DA REQUIEM – Gli amici del morto sono un ecosistema: moglie, figli, amanti, amici, colleghi… sono quasi i testimoni chiamati sul banco dell’accusa, per ridire la pena e l’incomprensione di una vicenda d’amore su cui tutti, meno Vietri, avevano le idee chiare. Tutti sanno qualcosa, tutti hanno capito l’inconsistenza dello smarrimento che ha portato al suicidio, tutti hanno penato insieme, tutti a modo loro ci aiutano a sfogliare il gustoso carciofo delle disavventure della passione amorosa. È lo svelamento al morto, finalmente, del pensiero buono degli altri. Una cornice persino anti-dolente, che fa tornare alla mente il tono scherzoso con cui il giovane Tom Sawyer e i suoi amici, nel capolavoro di Mark Twain, partecipano al loro funerale e si compiacciono del farsi compiangere. Ma è anche il terreno accidentato delle divergenze, delle distanze con cui si cerca una consapevolezza di qualcosa attraverso lo sguardo amico: ciascuno dice la sua e c’è da immaginare, se con perfidia, divertimento o dolore, l’autore abbia scovato dentro di sé, e forse anche dentro la realtà, l’invenzione di questo coro da requiem che il buon svuotacantine impara ad ascoltare insieme al lettore.
4. LEI IN FOTOCOPIA – Lei, Katia, è l’oggetto d’amore. Lei fa perdere il senno all’Orlando-Vietri senza che nessun Astolfo salga alla luna con l’ippogrifo per risistemare le cose. È dunque colpevole senza redenzione narrativa. Katia è oggettivamente una malefica, un’artefice di un suicida che spietatamente si disinteressa di lui e persino della sua fine. E c’è dunque dell’irreale nella fotocopia che, facendo i conti, ci viene propinata al posto di questa protagonista del male. L’autore infatti pare sopraffatto dalla voglia di non farla percepire al lettore per ciò che è: una stronza. Cerca di tenerci alla larga da un giudizio morale, cerca di distrarci per evitare di portarci ad un giudizio schietto: una stronza, con le sue buone ragioni, ma pur sempre una stronza. Ed è un gioco narrativo che direi riuscito, con una protagonista tenuta nascosta come un motore immobile, lontano dalla scena tragica. E così questo giudizio sospeso, questa figura trattenuta fin sul bordo del romanzo, alla fine rimbalza addosso al lettore e nelle ultime pagine – perché a ribellarsi è ancora lui, Vietri, rivelando l’offesa patita – ci rende pienamente ragione del titolo: mai ti farei del male, appunto. Nessuna eroina, dunque, nel bene e nel male. Del resto anche le lettere, le poesie, la scrittura intera di cui è intriso il romanzo, ci portano a tracciare un profilo verace dell’amore, non di lei. Lei resta lontana, la fotocopia di una vera figura amorosa, le cui immagini possono perciò tranquillamente essere gettate in fondo ad un lago.
5. IL MORTO CHE NON LO È MAI STATO – Il morto che non è morto davvero, è lo spunto che riedifica, che eleva il discorso oltre il piano narrativo, sulle fondamenta del dolore che la trama ci ha fatto percepire. È il riscatto di un viaggio all’inferno, avvinghiato al gesto: Vietri che getta nel lago quel che non serve più al futuro, anche perché è incomprensibile. Dunque una rinascita che muta il segno di ogni cosa. Chi ha radici per ascoltare il fondo del discorso, trova la sinopia, addirittura la sindone di un professore che ha l’ambizione di risorgere alle disavventure e agli errori. Un finale che rilancia gli equilibri, che rimette tante cose apposto, senza aver cancellato nessuna delle domande che il romanzo ci ha scoperchiato a proposito dei tanti modi con cui l’amore ci fa vivere intensamente, veramente.
A libro chiuso ho pure pensato che prima o poi Paolo Venti potrebbe permettersi il lusso di scrivere un sequel. La libreria, la cantina di Vietri in fondo devono essere ancora svuotate….
MariaTeresa Cusumano –
Gentile professor Venti,
mi chiamo Maria Teresa Cusumano.
Anzitutto complimenti per l’escamotage narrativo trovato per mettere a fuoco la vicenda (e il suicidio apparente, come si comprende solo alla fine) del prof. Vietri: una ricostruzione non in presa diretta, ma intermediata dalla figura di Antonio, lo svuota-case laureato in lettere. Un uomo capace di trattare le cose di chi non è più – quelle cose che, volenti o nolenti, sopravvivono a noi viventi – con rispetto e delicatezza, deponendole e non lanciandole… Un ex alunno del professore, pieno, al contempo, di ammirazione per l’uomo che ricordava e di turbamento per il dramma con il quale viene a contatto.
Questa scelta consente di entrare a poco a poco nella dimensione della storia, dipanandola sapientemente, con lo stesso ritmo con il quale Antonio amplia il proprio orizzonte di conoscenze, muovendosi all’interno della dimora del professore e incontrando le persone a cui lui è stato caro, che vengono a cercarne un ricordo.
È grazie a questi incontri che lo scrittore ci accompagna in un’articolata riflessione sull’amore, sentimento che è fiamma potente, ti fa scrivere poesie, romanzi, ti fa sognare ma poi si spegne / forza sacra che ti divora dentro, e sull’abbandono che è, nel suo segnare la stessa distanza tra la vita e la morte, come il lutto per la morte di una persona.
La storia del prof. Vietri diventa il pretesto per indagare la stessa dimensione ontologica dell’amore: se esista o no un amore adulto, quello di chi è capace di reggersi sulle proprie gambe ed è in grado di stare da solo, o se questa sia solo una versione modernizzata ed efficientista dell’amore (che è invece lo spazio in cui ci si affida e in cui si accolgono le debolezze dell’altro, ci si presenta nudi e senza difese).
Al contempo, si affronta il problema del tempo e della corsa – e dunque di tutto ciò che oggi di fatto ostacola l’amore, che necessita invece di tempo per nascere, durare, ma anche per finire bene – e quello della nostalgia riconoscente, intesa come capacità di elaborare il dolore, anche dell’abbandono, anche dell’esclusione, salvando quanto di prezioso c’è stato. Una conquista non scontata, e che presuppone che l’altro ci consenta di dare un senso anche alla fine.
Non si trascurano alcune tematiche collaterali: l’imperativo della libertà da condizionamenti, da qualunque condizionamento, che spesso porta a trattare gli altri non come fini, ma come mezzi; il dilemma etico sotteso alla Parodos dell’Agamennone: quando l’uomo si muove sul piano della necessità (il “ciò che deve essere sia”) dovendo arrivare a compiere, senza potervisi sottrarre, un’azione che infligge dolore agli altri, dovrebbe evitare di aderire con il proprio essere, e in maniera ostentata, a quella dimensione, per preservare l’altro da un dolore gratuito, che si aggiunge al dolore inevitabile.
È bello scoprire, alla fine del libro, che il lancio del cellulare (quasi una sorta di “maglia rotta nella rete” di montaliana memoria) ha cambiato le cose. E che ciò è potuto accadere non tanto e non solo, forse, grazie al senso di definitiva liberazione dai condizionamenti che quel lancio ha consentito, ma anche grazie a una presa di coscienza (che è anche recupero del senso di sé): mi avrebbero trovato morto, in una pozza di sangue, avrebbero detto che ero pazzo, borderline, e il mio amore sarebbe stato declassato improvvisamente a sindrome ossessivo compulsiva.
Il recupero del senso di sé – se sono sopravvissuto al taglierino giallo è anche per testimoniare che si può amare oltre ogni buon senso, e non è pazzia – consente, al contempo, di guadagnare un orizzonte di senso più corale e, dunque, di tornare a vedere e a dare importanza anche ai terzi (In fondo al laghetto, oltre gli alberi e le case vidi i miei figli, i miei studenti, gli anni che statisticamente mi restavano da vivere, i libri che mi restavano da leggere). Anche per farsi testimone dell’insegnamento maturato e conquistato con l’esperienza: se dopo milioni di parole, dopo le parole più belle che avete potuto scambiarvi, non riesci a trovare una parola decente per dire che è finita, una parola tua, (…) allora cosa è stato? Niente è stato, hai buttato via tutto. Un po’ quello che Cesare Pavese (perché durante tutta la lettura mi è tornato in mente l’epilogo della sua vicenda di vita) non riuscì a fare dopo l’incontro con “la belva” (penso all’omonimo brano ne I dialoghi con Leucò). Perché anche lui era incappato in una Katia-Constance della quale ben aveva potuto dire: sei la vita e la morte…
Leggendo il suo libro ho avuto la netta percezione di quanto vero sia quello che dice Galimberti quando parla del grande ruolo che la scuola e l’insegnamento possono avere nel contrastare l’analfabetismo emotivo.
Le emozioni, i sentimenti non sono dati a noi in dote naturale, ma si apprendono. Lo si fa attraverso la cura che si riceve nei primi tre anni di vita, ma lo si fa anche successivamente, nella dimensione cognitiva della letteratura (è il sentimento, soprattutto, ad avere una dimensione cognitiva). La letteratura è il luogo in cui si apprende cos’è l’amore, cos’è il dolore, cos’è il suicidio, cos’è la disperazione, la noia, etc. Se la scuola disamora a questi scenari il sentimento non si forma. Se la cultura non interviene a fare questo lavoro i sentimenti non maturano, non si elabora la conoscenza della differenza tra il bene e il male (che Kant diceva che si può anche non conoscere, perché è una differenza che ognuno di noi sente naturalmente… Ma per sentirla bisogna averla appresa…).
Ho pensato che il suo libro, per le riflessioni che induce sul tema dell’amore e, soprattutto, della separazione, sia molto educativo. E lo sia soprattutto per le conseguenze del lancio del cellulare finale. Per il fatto che chi legge, oltre a identificarsi nel personaggio abbandonato che, in senso metaforico, scende agli inferi, può identificarsi anche nella sua risalita dagli inferi.
Maria Teresa Cusumano
Anna Vallerugo –
Damiano Vietri, professore del Trevigiano, viene trovato senza vita su una panchina di un parco nel giorno del sessantesimo compleanno. È una morte inattesache getta nello sgomento chiunque abbia negli anni avuto a che fare con lui, allievi, amanti di vecchia data, l’ex moglie. Alla sorpresa seguono le consolidate pratiche per la spartizione dei beni: ma bisognerà prima occuparsi di liberare l’abitazione dagli oggetti accumulati negli anni. Il compito toccherà a Toni del Bon, già studente dell’insegnante suicida, di professione svuotacantine, nonostante un passato di regolari studi classici e letture di peso.
Non gli sarà facile destreggiarsi tra oggetti impolverati e decidere ciò che ha valore effettivo, monetizzabile: è il suo mestiere quello di individuare tra il ciarpame e i ricordi di una vita soltanto cosa gli apporterà un futuro ricavo per poi gettare il resto senza rimpianti. Ma lui il professore lo conosceva bene, o almeno così crede, perciò il compito gli riuscirà particolarmente gravoso: gli oggetti del quotidiano che si rigira incerto tra le mani paiono conservare parte dell’anima del suo insegnante. Le centinaia di libri, in particolare, che si ripromette di selezionare in modo ragionato, gli suscitano reminiscenze scolastiche ancora vive e affatto teoriche: era attraverso le parole di Saffo e Catullo che il professore aveva instillato in tutti gli allievi la comprensione del più profondo dei sentimenti, l’amore. Ciononostante, si scopre presto nel romanzo che si fa racconto ed epistolario, non è riuscito a difendersene: è una passione irregimentabile e devastante per Katia, cantante lirica che abita a Taiwan con la famiglia, che gli ha fatto perdere sonno e senno, fino alle conseguenze più tragiche. Almeno così pare, perché il gioco delle apparenze è centrale nella costruzione della complessa, originale trama di Mai ti farei del male (Europa edizioni), ultimo libro di Paolo Venti: chi si illude di dominare è di fatto vittima e pedina della grande burattinaia Katia, che domina incontrastata sulle vite altrui accendendo passioni – per il tramite della sola parola scritta, lettere, email – e decidendo il momento della loro fine.
I personaggi gregari, femminili perlopiù, scolorano al suo cospetto: ma apportano comunque un piccolo tassello a ricomporre la vita del protagonista per il tramite del trovarobe, riesce a ricostruire pezzo per pezzo la vita di colui che gli insegnò ad amare la cultura.
Resiste felicemente a ogni tipo di riduzione a uno specifico genere letterario l’ultimo libro di Paolo Venti, storico docente di latino e greco al liceo Leopardi Majorana di Pordenone: all’apparenzagiallo dall’importante scavo psicologico, imbastito sull’alternanza dei ricordi che premono, a riaccampare i loro diritti sulla memoria, con l’apporto delle riflessioni personali della voce narrante a ricostruire la figura del professore in una sorta di postumo romanzo di formazione, si fa lettura incalzante, piena di colpi di scena, e a molteplici binari. I livelli interpretativi si moltiplicano e alla trama improntata sulla ricerca delle cause del suicidio si sovrappongono- la sustanziano, anzi – riflessioni sulla letteratura classica, la sua imprescindibile importanzae la sua perenne attualità.
Anna Vallerugo (Gazzettino del 04 gennaio 2025)